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Patrocinio a spese dello Stato: incostituzionale la preclusione ai condannati per spaccio di lieve entità

Paolo Grasselli • 20 febbraio 2023

Corte Costituzionale - sentenza n. 223 del 05 ottobre 2022

Segnaliamo ai lettori la sentenza in oggetto, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 76, comma 4-bis, del D.P.R. 30 maggio 2022, n. 115, recante "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia", nella parte in cui ricomprende anche la condanna per il reato di cui al comma 5 dell'art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanza psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), qualora ricorrano le ipotesi aggravate previste dall'art. 80, comma 1, lettere a) o g), del medesimo t.u. stupefacenti, tra quelli la cui condanna definitiva determini, in capo al reo, una presunzione di superamento dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

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Segnaliamo ai lettori la sentenza in oggetto, con cui le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto interpretativo, e pronunciandosi in senso conforme all'ordinanza di rimessione della I Sezione, affrontano la seguente questione di diritto: « se l ’ordinanza adottata dal magistrato di sorveglianza che sull'istanza di concessione della liberazione anticipata (art. 69 bis Ord. Pen.) debba essere notificata in ogni caso anche al difensore dell'istante, sicché, ove questi ne sia privo, la notifica debba avvenire al difensore d'ufficio appositamente nominato ». La questione viene affrontata a fronte di due orientamenti giurisprudenziali differenti. Secondo un primo filone interpretativo, non essendo necessario l'intervento del difensore nel procedimento che decide sull'istanza di liberazione anticipata ai sensi dell'art. 69 bis Ord. Pen., in mancanza di un difensore di fiducia il magistrato di sorveglianza non è tenuto a nominarne uno d'ufficio. In tale ipotesi le comunicazioni e le notificazioni inerenti il procedimento andranno effettuate solo ai soggetti che, al momento della decisione, risultino legittimati a proporre l'eventuale reclamo ( ergo l'interessato ed il pubblico ministero). Il secondo orientamento, invece, muovendo da un presupposto ritenuto pacifico dalla giurisprudenza di legittimità, ovvero che il reclamo avverso l'ordinanza del magistrato di sorveglianza ha natura di mezzo impugnazione, propende per la necessità di assicurare la piena garanzia del diritto di difesa anche nella fesa iniziale del procedimento, pertanto l'ordinanza del magistrato di sorveglianza deve essere comunicata e notificata, a fronte del richiamo operato dall'art. 69 bis, comma 1, Ord. Pen., ai soggetti indicati dall'art. 127 c.p.p., e quindi anche al difensore, eventualmente nominato d'ufficio. Le Sezioni Unite risolvono il contrasto interpretativo seguendo quest'ultimo orientamento, e richiamano a proprio sostegno argomenti incentrati sia sul piano letterale che di tipo sistematico, oltre a richiamare i tratti essenziali della disciplina in oggetto ed a dedicare rapidi cenni ad altre figure affini. Nella disamina della norma, il Supremo Collegio, riunito nella sua massima espressione, analizza in primo luogo l'istituto del procedimento relativo all' istanza di liberazione anticipata di cui all'art. 69 bis Ord. Pen., così come rinnovato dalla legge n. 227/2002, descrivendolo come un procedimento bifasico , ovvero composto da una prima fase che si conclude con una decisione de plano ed un eventuale seguito introdotto dal reclamo che segue lo schema del contraddittorio pieno e del diritto di difesa (così come anche rimarcato dalla Corte Costituzionale con l'ord. n. 352 del 2003). Ciò premesso, si analizzi quindi il dato letterale , poiché l'art. 69 bis, comma 1, Ord. Pen., prevede espressamente che l'ordinanza del magistrato di sorveglianza, che ha deciso sull'istanza di liberazione anticipata, sia notificata o comunicata senza ritardo ai soggetti indicati dall'art. 127 c.p.p., quindi alle parti ed ai difensori, " precisando che se l'imputato è privo di difensore l'avviso è dato a quello d'ufficio ", poiché sono anche i soggetti legittimati all'impugnazione del provvedimento, " soggetti che il comma 3 dell'art. 69 bis Ord. Pen. individua nell'interessato, nel pubblico ministero e nel difensore ". Elementi sistematici , poi, vanno solo a confermare tale impostazione, in virtù di una pacifica attribuzione al reclamo ex art. 69 bis Ord. Pen. della natura di mezzo di impugnazione (ovvero gravame), il quale dovrà essere sostenuto, a pena di inammissibilità, da motivi, dovrà rispettare rigorose modalità di presentazione, ma al contempo assicurerà il diritto di difesa , poiché darà la possibilità al difensore di intervenire " già nella fase immediatamente successiva all'adozione dell'ordinanza del magistrato di sorveglianza, così da consentire al condannato di avvalersi del contributo del difensore - di fiducia o, in mancanza, d'ufficio - nella scelta relativa all' an della presentazione del reclamo e, poi, nella predisposizione dell'atto di impugnazione ". Ricorda infine il Supremo Collegio che la Corte Costituzionale ha affermato che il diritto di difesa, nell'ambito dell'esecuzione penale, comprende il dovere dello Stato di provvedere alla nomina di un difensore per la difesa di un cittadino ove questi non provveda, ai sensi del combinato disposto degli arti. 24, 13 e 3 della Costituzione, così come il punto 96 dell'art. 2 della legge di delegazione 16 febbraio 1987 n. 81 ("Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione di un nuovo codice di procedura penale"), prescriveva "garanzia di giurisdizionalità nella fase esecutiva, necessità del contraddittorio e impugnabilità dei provvedimenti". Alla luce di tali considerazioni le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione enunciano il seguente principio di diritto: " l'ordinanza del magistrato di sorveglianza che decide sull'istanza di concessione della liberazione anticipata (art. 69 bis Ord. Pen.) deve essere in ogni caso notificata al difensore del condannato, se del caso nominato d'ufficio, legittimato a proporre reclamo. Quest'ultimo è soggetto alla disciplina generale delle impugnazioni ". Si riporta il testo della sentenza in oggetto: SENTENZA sul ricorso proposto da **********, nato a **********, il ********** avverso l'ordinanza del 14/02/2020 del Tribunale di sorveglianza di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal componente Angelo Caputo. Lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Assunta Cocomello, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 14/02/2020, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha dichiarato inammissibile il reclamo proposto personalmente da ********** avverso l'ordinanza in data 11/04/2019 con la quale il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo aveva parzialmente rigettato l'istanza di liberazione anticipata in relazione ad alcuni dei semestri indicati dal detenuto. Il Tribunale di sorveglianza ha osservato che il reclamo è stato proposto personalmente dal detenuto senza indicazione dei motivi, mentre la memoria contenente varie censure, presentata da uno dei difensori di fiducia successivamente nominati, era stata depositata a molti mesi di distanza dalla proposizione del reclamo. 2. Avverso l'indicata ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma ha proposto ricorso per cassazione **********, per il tramite del difensore avv. **********, denunciando - nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. - violazione della legge processuale. Deduce il ricorso che l'ordinanza di rigetto era stata notificata solo al detenuto e non ai suoi difensori, in violazione dell'art. 69-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), che, richiamando l'art. 127 cod. proc. pen., prevede la notificazione del provvedimento del magistrato di sorveglianza anche al difensore per garantire al detenuto la difesa tecnica in un procedimento a contraddittorio differito. Osserva ancora il ricorso che la memoria presentata dai difensori nominati dal detenuto, con la quale erano stati indicati i motivi a sostegno del reclamo, doveva essere considerata come autonomo atto di impugnazione del difensore e non poteva essere ritenuta tardiva, perché, in assenza di notificazione del provvedimento oggetto di reclamo al difensore stesso, per quest'ultimo il termine per la presentazione del reclamo non era decorso. 3. Investita della cognizione del ricorso, la Prima Sezione penale, con ordinanza n. 35782 del 27 novembre 2020, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, ravvisando un contrasto potenziale tra l'indirizzo fin qui seguito dalla giurisprudenza di legittimità e l'orientamento sostenuto dalla stessa ordinanza di rimessione. Secondo il primo indirizzo, nel procedimento ex art. 69-bis Ord. pen. in tema di istanza di liberazione anticipata, non è necessario l'intervento del difensore, con la conseguenza che il giudice procedente, in mancanza di nomina fiduciaria, non è tenuto a designare un difensore d'ufficio. In tale caso, le comunicazioni e le notificazioni sono necessariamente limitate ai soggetti, protagonisti del procedimento, legittimati al reclamo (interessato e P.M.) e determinano la decorrenza del termine di dieci giorni per la proposizione del reclamo, mentre non è consentito riaprire detto termine con la nomina tardiva di un difensore (ex plurimis, Sez. 1, n. 21350 del 06/05/2008, Drago, Rv. 240089). Osserva l'ordinanza di rimessione come sia possibile attribuire al reclamo natura di atto che sollecita il contraddittorio differito a fronte di un provvedimento adottato senza la presenza delle parti, mentre una diversa ricostruzione potrebbe attribuire al reclamo stesso natura di atto di impugnazione. Muovendosi in quest'ultima prospettiva e, dunque, riconoscendo natura di mezzo di impugnazione al reclamo ex art. 69-bis, comma 3, Ord. pen., l'ordinanza di rimessione, come si è anticipato, non condivide l'orientamento ricordato, ma rileva che il detenuto, sulla base dell'indirizzo criticato, viene privato dell'assistenza del difensore nella delicata fase dell'impugnazione del provvedimento reiettivo del magistrato di sorveglianza; valorizzando il rinvio operato dall'art. 69-bis, comma 1, Ord. pen. ai soggetti indicati dall'art. 127 cod. proc. pen. e, dunque, anche al difensore, l'ordinanza di rimessione propende per la tesi secondo cui il provvedimento del magistrato di sorveglianza deve in ogni caso essere notificato al difensore del detenuto, se del caso nominato allo scopo. 4. In data 17 dicembre 2020, il Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la sua trattazione l'odierna udienza camerale ai sensi dell'art. 611 cod. proc. pen. 5. In data 13 gennaio 2021, il difensore del ricorrente ha depositato una memoria, con la quale, in adesione all'impostazione dell'ordinanza di rimessione, conclude per l'annullamento dell'ordinanza impugnata e, in subordine, eccepisce l'illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 24 e 27 Cost., dell'art. 69-bis Ord. pen., nella parte in cui non consente l'esercizio effettivo della difesa in un procedimento giudiziario che prevede un beneficio premiale concernente la finalità rieducativa della pena. 6. Con requisitoria in data 2 febbraio 2021, il Sostituto Procuratore generale, condividendo l'indirizzo delineato dall'ordinanza di rimessione, ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La questione di diritto sottoposta all'esame delle Sezioni Unite può essere formulata nei seguenti termini: «Se l'ordinanza adottata dal magistrato di sorveglianza sull'istanza di concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis Ord. pen.) debba essere notificata in ogni caso anche al difensore dell'istante, sicché, ove questi ne sia privo, la notifica debba avvenire al difensore d'ufficio appositamente nominato». 2. La questione è stata affrontata in termini fin qui concordi dalla giurisprudenza di legittimità. Si è affermato, infatti, che l'intervento del difensore nel procedimento ex art. 69-bis Ord. pen. non è necessario e che, in mancanza di nomina di un difensore di fiducia, il magistrato di sorveglianza non è tenuto a nominare un difensore d'ufficio; in tale ipotesi le comunicazioni e le notifiche prescritte dal comma 1 dell'art. 69-bis cit. devono essere effettuate nei confronti dei soli soggetti - effettivi protagonisti del procedimento - legittimati a proporre il reclamo, ossia all'interessato e al pubblico ministero, dando luogo alla decorrenza del breve termine di dieci giorni concesso dalla legge per la proposizione del gravame, termine che non può essere "riaperto" con la nomina tardiva di un difensore (Sez. 1, n. 21350 del 2008, Drago, cit.; conf. Sez. 7, n. 9623 del 17/06/2015, dep. 2016, Traorè, non mass.; Sez. 7, n. 49859 del 26/06/2014, Imparato, non mass.; Sez. 7, n. 45260 del 20/10/2009, Ierinò, non mass.). Sempre nella prospettiva dell'orientamento in esame, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che l'intervento del difensore nel procedimento ex art. 69- bis Ord. pen. non è necessario e che, di conseguenza, in mancanza di nomina fiduciaria per la specifica procedura, il giudice procedente non è tenuto a designare un difensore d'ufficio, mentre le comunicazioni e le notificazioni ai sensi dell'art. 69-bis, comma 1, cit. devono essere limitate ai soggetti che, al momento della decisione, risultavano legittimati a proporre reclamo (l'interessato e il pubblico ministero) e danno luogo alla decorrenza del termine breve di dieci giorni per la proposizione del reclamo, ossia per la forma di impugnazione stabilita dall'ordinamento avverso il provvedimento di diniego del beneficio della liberazione anticipata (Sez. 1, n. 47481 del 06/10/2015, Teano, Rv. 265376). Ferma restando l'esclusione della necessità di nominare un difensore d'ufficio da parte del magistrato di sorveglianza all'esito del procedimento senza la presenza delle parti, nel caso in cui l'istante abbia, invece, nominato un difensore di fiducia, l'ordinanza reiettiva del magistrato di sorveglianza - oltre che comunicata al pubblico ministero e notificata all'interessato - deve essere notificata anche al già nominato difensore di fiducia, ossia a tutti i soggetti legittimati all'impugnazione (Sez. 1, n. 92 del 27/09/2011, dep. 2012, Bianco, non mass.). 2.1. Esaurita la ricognizione delle decisioni espressive dell'orientamento contrastato dall'ordinanza di rimessione, una considerazione generale si impone. Lungi dall'attribuire al reclamo previsto dall'art. 69-bis, comma 3, Ord. pen. natura di mero atto sollecitatorio del contraddittorio differito rispetto a un provvedimento - quello del magistrato di sorveglianza - adottato senza la presenza delle parti, tutte le decisioni passate in rassegna attribuiscono al reclamo stesso natura di mezzo di impugnazione, ora qualificandolo, in termini generali, come gravame (Sez. 1, n. 21350 del 2008, Drago, cit.; Sez. 7, n. 45260 del 2009, Ierinò, cit.; Sez. 7, n. 49859 del 2014, Imparato, cit.; Sez. 7, n. 9623 del 2015, dep. 2016, Traorè, cit.), ora definendolo espressamente, appunto, come mezzo di impugnazione (Sez. 1, n. 47481 del 2015, Teano, cit.; Sez. 1, n. 92 del 2011, dep. 2012, Bianco, cit.). 3. La diversa impostazione seguita dall'ordinanza di rimessione condivide dunque con l'orientamento appena passato in rassegna il riconoscimento al reclamo ex art. 69-bis, comma 3, Ord. pen. della natura di mezzo di impugnazione; riconoscimento, questo, dal quale discende l'applicazione della disciplina generale in materia di impugnazioni e, segnatamente, dell'art. 581, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in forza del quale l'atto di impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l'enunciazione dei motivi, con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto a sostegno della richiesta, previsione la cui inosservanza è sanzionata dall'inammissibilità a norma dell'art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. Dalla natura di impugnazione rivestita dal reclamo di cui all'art. 69-bis, comma 3, Ord. pen., però, l'ordinanza di rimessione fa discendere la necessità di assicurare la piena garanzia del diritto di difesa anche nella fase iniziale, «interpretando il richiamo operato dall'art. 69-bis, comma 1, cit. come riferito a tutti "soggetti indicati nell'art. 127 cod. proc. pen." e, quindi, anche al difensore». Le pronunce espressive dell'orientamento prima richiamato, osserva ancora l'ordinanza di rimessione, non tengono conto del fatto che la nomina di un difensore d'ufficio, nel caso di mancanza di un difensore di fiducia, è prevista dalla norma codicistica non al solo fine dello svolgimento dell'udienza (art. 127, comma 1, cod. proc. pen.), ma anche per far decorrere il termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento (art. 127, comma 7, cod. proc. pen.) e che tale esigenza, correlata con la decorrenza del termine per la presentazione del reclamo, resta intatta anche qualora il magistrato di sorveglianza provveda de plano. Essa infatti riguarda non la regolarità formale della procedura, ma la possibilità per il richiedente di essere assistito da un difensore anche in questa fase. 4. Le Sezioni Unite ritengono di dover aderire all'orientamento delineato dall'ordinanza di rimessione, convergendo verso questa soluzione sia argomenti incentrati sul dato letterale delle disposizioni in esame, sia argomenti di carattere sistematico. 5. In limine, mette conto richiamare, in estrema sintesi, alcuni profili della disciplina procedimentale relativa alla concessione della liberazione anticipata, così come modificata dalla legge 19 dicembre 2002, n. 277. 5.1. Oltre a stabilire un allargamento dell'ambito di operatività della liberazione anticipata, con la previsione che ai fini delle riduzioni di cui all'art. 54 Ord. pen. possono essere presi in considerazione anche i semestri espiati dal condannato in affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, comma 12-bis, Ord. pen., aggiunto dall'art. 3 della legge n. 277 del 2002), la novella ha modificato funditus il procedimento per la decisione sull'istanza di concessione della liberazione anticipata. All'originaria attribuzione della competenza in ordine a tale decisione al tribunale di sorveglianza (competenza tenuta ferma per la revoca della riduzione di pena per la liberazione anticipata: art. 70, comma 1, Ord. pen., come modificato dall'art. 2 della legge n. 277 del 2002), si sostituisce un procedimento bifasico a contraddittorio eventuale e differito; un procedimento che, dunque, si discosta dal modello "tipico" delineato dagli artt. 678 e 666 cod. proc. pen. Competente a decidere sull'istanza di concessione della liberazione anticipata (che può essere avanzata anche dal gruppo di osservazione e trattamento e dai prossimi congiunti del condannato: cfr. art. 57 Ord. pen.) è ora il magistrato di sorveglianza, che si pronuncia con ordinanza adottata in camera di consiglio «senza la presenza delle parti» (art. 69-bis, comma 1, Ord. pen., inserito dall'art. 1 della legge n. 277 del 2002); il procedimento è talora descritto come de plano, ma, a differenza del procedimento de plano previsto, ad esempio, per il giudizio di legittimità dall'art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen., in cui la Corte di cassazione decide «senza formalità» (e, quindi, senza alcuna interlocuzione con le parti), nel procedimento per la concessione della liberazione anticipata, il magistrato di sorveglianza decide non prima di quindici giorni dalla richiesta di parere al pubblico ministero, termine il cui decorso fa sì che il giudicante possa pronunciarsi anche in assenza di detto parere. Il contraddittorio (non più "asimmetrico", ossia limitato al parere del pubblico ministero, come nella fase monocratica, ma) pieno è assicurato dalla fase eventuale introdotta dal reclamo al tribunale di sorveglianza, di cui non può far parte il magistrato di sorveglianza già pronunciatosi sull'istanza (cfr. il richiamo all'art. 30-bis, quinto e sesto comma, Ord. pen. ad opera del comma 4, ultima parte, dell'art. 69-bis cit.). 5.2. Il primo segmento del procedimento bifasico disciplinato dall'art. 69-bis Ord. pen. ha suscitato dubbi di legittimità costituzionale, dubbi disattesi dal giudice delle leggi. Muovendo dal rilievo che la legge n. 227 del 2002 rispondeva a esigenze di snellimento procedurale fortemente avvertite nella prassi, anche in considerazione dell'elevato numero di istanze di concessione della liberazione anticipata, la Corte costituzionale ha rimarcato che, in particolare, «veniva avvertita come fonte di ingiustificato aggravio la previsione di un procedimento in contraddittorio, in vista dell'adozione di un provvedimento che ben poteva essere (ed in larga parte dei casi era) di segno positivo e, dunque, consentaneo alla richiesta dello stesso interessato», mentre, di contro, appariva «assai più ragionevole che l'instaurazione di un contraddittorio pieno fosse contemplata solo nel caso di eventuale insoddisfazione del richiedente (o del pubblico ministero) per la decisione assunta»; da questa premessa, muove il giudice delle leggi per ribadire «la piena compatibilità con il diritto di difesa di modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito: i quali, cioè, in ossequio a criteri di economia processuale e di massima speditezza, adottino lo schema della decisione de plano seguita da una fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum» (Corte cost., ord. n. 352 del 2003). E' dunque la seconda fase, introdotta dal reclamo della parte che intenda censurare la decisione del magistrato di sorveglianza, a garantire la tenuta complessiva del procedimento bifasico delineato dal legislatore del 2002 sotto il profilo del principio del contraddittorio e del diritto di difesa. Tenuta che, peraltro, trova ulteriore conferma nelle peculiarità e nelle particolari esigenze applicative della liberazione anticipata, che, tra l'altro, «si differenzia, già sul piano strutturale, dal complesso delle misure alternative alla detenzione in senso stretto (concesse dall'organo collegiale con l'osservanza della procedura di cui agli artt. 666 e 678 cod. proc. pen.), traducendosi in una mera riduzione quantitativa della pena, finalizzata a "premiare" il condannato che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione, cui non si accompagna alcun regime "alternativo" a quello carcerario» (Corte cost., ord. n. 291 del 2005). 5.3. Concludendo sul punto, per il miglior inquadramento della disciplina in esame può essere utile una sia pure schematica rassegna di alcune "figure" di reclamo previste dalle norme di ordinamento penitenziario e caratterizzate da - più o meno accentuati - profili distintivi rispetto al modello "tipico" di procedimento di sorveglianza delineato, con l'avvento del nuovo codice di rito, dagli artt. 678 e 666 cod. proc. pen. a presidio di quella garanzia di giurisdizionalità sancita, come si vedrà, dal legislatore delegante. A sua volta, il procedimento di sorveglianza "tipico" si distingue - per così dire, "a monte" - dal procedimento camerale ex art. 127 cod. proc. pen. per vari aspetti, tra i quali la previsione di casi e forme della declaratoria d'inammissibilità della richiesta e la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore, tesa a rafforzare, rispetto al procedimento camerale generale, la garanzia del contraddittorio (cfr. Sez. U, n. 26156 del 28/05/2003, Di Filippo, Rv. 224612). "A valle" del procedimento di sorveglianza "tipico" disciplinato dagli artt. 678 e 666 cod. proc. pen. si colloca, invece, una costellazione di procedimenti relativi all'esecuzione della pena, caratterizzati da differenze, più o meno rilevanti, rispetto al modello "tipico" e anche rispetto al modulo procedimentale prefigurato per la concessione della liberazione anticipata dall'art. 69-bis Ord. pen. Guardando a quest'ultimo, vengono in rilievo, innanzitutto, i procedimenti relativi a provvedimenti adottati dall'autorità penitenziaria, quali il reclamo avverso il provvedimento dell'amministrazione penitenziaria che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare (art. 14-ter Ord. pen.) ovvero quello ex art. 41-bis, comma 2-quinquies, Ord. pen. contro il provvedimento con il quale è disposta o prorogata l'applicazione del regime di cui al comma 2 della medesima disposizione. A differenza del reclamo ex art. 69-bis Ord. pen., nei casi ora richiamati il primo segmento del procedimento è costituito da un provvedimento non del magistrato di sorveglianza, ma dell'autorità penitenziaria, rispetto al quale il reclamo assume la fisionomia dell'impugnativa di un atto amministrativo, sicché non si è in presenza di un procedimento bifasico (pur attribuendo la giurisprudenza di legittimità agli indicati reclami natura di mezzi di impugnazione: per il reclamo ex art. 14-ter Ord. pen., cfr. Sez. 1, n. 1781 del 25/03/1998, Pianese, Rv. 211028; per il reclamo ex 41-bis Ord. pen., cfr. Sez. 1, n. 46904 del 10/11/2009, Chindamo, Rv. 245683; Sez. 1, n. 41321 del 06/05/2003, Camarata, Rv. 225748). In altri casi di procedimenti "atipici" rispetto al modello generale di procedimento di sorveglianza, il reclamo ha ad oggetto un provvedimento del giudice di sorveglianza. In questo ambito, un'altra ipotesi di contraddittorio eventuale e differito è delineata dall'art. 667, comma 4, cod. proc. pen., che stabilisce la disciplina procedimentale in tema di dubbio sull'identità fisica del condannato, disciplina, tuttavia, applicabile anche ad alcune materie attribuite al magistrato di sorveglianza (art. 678, comma 1-bis, cod. proc. pen.) e alle misure alternative (artt. 678, comma 1-ter e 656, comma 5, cod. proc. pen.). A differenza, però, del procedimento per l'applicazione della liberazione anticipata, il passaggio dalla prima fase alla seconda (eventuale) è qui scandito non già da un reclamo, bensì da un'opposizione dinanzi allo stesso giudice che ha adottato la decisione contestata. Maggiori affinità rispetto al procedimento dettato in tema di liberazione anticipata si rinvengono nel procedimento di cui all'art. 30-bis Ord. pen. relativo ai permessi, anch'esso articolato in due fasi, la prima davanti al magistrato di sorveglianza, la seconda, introdotta da un reclamo alla sezione di sorveglianza (al quale è comunemente riconosciuta natura di mezzo di impugnazione: ex plurimis, Sez. 1, n. 15982 del 17/09/2013, dep. 2014, Greco, Rv. 261989; Sez. 1, n. 37332 del 26/09/2007, Esposito, Rv. 237505), che la più recente e consolidata giurisprudenza di legittimità esclude possa svolgersi de plano (ex plurimis, Sez. 1, n. 37044 del 20/11/2020, Nicastro, Rv. 280097; Sez. 1, n. 37527 del 07/10/2010, Casile, Rv. 248694). La disciplina in materia non contiene alcun rinvio al procedimento in camera di consiglio ex art. 127 cod. proc. pen., ma, sulla scorta della decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale - anche - dell'art. 30-bis Ord. pen. nella parte in cui non consentiva «l'applicazione degli artt. 666 e 678 del codice di procedura penale nel procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che esclude dal computo della detenzione il periodo trascorso in permesso-premio» (Corte cost., sent. n. 53 del 1993), la giurisprudenza di legittimità ritiene che il reclamo in materia di permessi debba seguire il procedimento di sorveglianza "tipico" di cui agli artt. 666 e 678 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 4867 del 07/10/1998, Natoli Rv. 211503; Sez. 1, n. 49343 del 17/11/2009, Bontempo Scavo, Rv. 245641). In questa prospettiva, tesa a rafforzare l'effettività del diritto di difesa del condannato, la Corte costituzionale ha di recente dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-ter, comma 7, Ord. pen., nella parte in cui prevede, mediante il rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio sia soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni (Corte cost., sent. n. 113 del 2020). 6. Richiamati i tratti essenziali della disciplina procedimentale relativa alla concessione della liberazione anticipata e dedicati rapidi cenni ad altre figure di reclamo (o istituti affini), è ora possibile dar conto delle ragioni che convergono verso l'adesione all'orientamento delineato dall'ordinanza di rimessione, iniziando dagli argomenti che valorizzano il dato letterale offerto dall'art. 69-bis Ord. pen. A norma del comma 1 dell'art. 69-bis cit., l'ordinanza del magistrato di sorveglianza che ha deciso sull'istanza di concessione della liberazione anticipata è comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nell'art. 127 cod. proc. pen. Il rinvio va riferito al comma 1 della disposizione codicistica, che indica, quali destinatari dell'avviso dell'udienza in camera di consiglio, le parti (nonché le altre persone interessate) e i difensori, precisando che se l'imputato è privo di difensore l'avviso è dato a quello di ufficio. Da qui una prima, significativa, indicazione a favore della tesi secondo cui tra i destinatari della notificazione dell'ordinanza (in tutto o in parte) reiettiva dell'istanza di concessione della liberazione anticipata va incluso il difensore d'ufficio, nominato dal magistrato di sorveglianza al condannato che ne sia privo, indicazione immediatamente evincibile dalla disciplina generale del procedimento in camera di consiglio richiamata dall'art. 69-bis, cit. e, segnatamente, dall'ultimo periodo del comma 1 dell'art. 127 cod. proc. pen. Da questo punto di vista, l'orientamento qui disatteso, in buona sostanza, finisce con l'amputare", in modo del tutto ingiustificato, il rinvio al comma 1 dell'art. 127 cod. proc. pen. nell'ultima parte della disposizione del codice di rito, relativa appunto alla necessaria nomina del difensore d'ufficio al condannato che ne sia privo. Dagli ulteriori commi dell'art. 127 cod. proc. pen. non si traggono indicazioni contrastanti con la ricostruzione indicata, posto che, anzi, a venire in rilievo potrebbe essere solo il comma 7 (in tema di comunicazione o notificazione dell'ordinanza adottata all'esito dell'udienza camerale), che, però, fa riferimento al comma 1. La lettura coordinata dell'art. 69-bis, comma 1, Ord. pen. e dell'art. 127, comma 1, cod. proc. pen. induce allora a ritenere che il difensore - d'ufficio nel caso in cui il condannato ne sia privo - vada considerato tra i destinatari della notificazione dell'ordinanza del magistrato di sorveglianza. La conclusione appena raggiunta trova riscontro nella positiva definizione dei soggetti legittimati all'impugnazione del provvedimento adottato dal magistrato di sorveglianza, soggetti che il comma 3 dell'art. 69-bis Ord. pen. individua nell'interessato, nel pubblico ministero e nel difensore; figura, quest'ultima, che alla luce del precedente rilievo, include non solo il difensore di fiducia designato dal condannato prima della decisione sull'istanza, ma anche - nel caso in cui alla nomina fiduciaria non abbia provveduto l'interessato - quello d'ufficio nominato dal magistrato di sorveglianza e destinatario della notificazione del suo provvedimento. 7. Anche sul piano sistematico la soluzione prospettata dall'ordinanza di rimessione incontra significative conferme. 7.1. Si è già rimarcato come l'orientamento finora seguito dalla giurisprudenza di legittimità e quello prospettato dall'ordinanza di rimessione condividano l'attribuzione al reclamo ex art. 69-bis, comma 3, Ord. pen. della natura di mezzo di impugnazione. Nella stessa prospettiva e, dunque, muovendo dal rilievo che il reclamo avverso l'ordinanza in tema di concessione della liberazione anticipata ha natura di mezzo di impugnazione, la giurisprudenza di legittimità ritiene che il reclamo stesso, essendo assoggettato alle regole generali che disciplinano le impugnazioni, debba essere sostenuto, a pena di inammissibilità, da motivi (Sez. 1, n. 993 del 05/12/2011, dep. 2012, Parisi, Rv. 251678; Sez. 1, n. 48152 del 18/11/2008, Trasmondi, Rv. 242655); che rispetto ad esso trovino applicazione le norme relative alle modalità di presentazione (Sez. 1, n. 23371 del 15/05/2015, Piacente, Rv. 263614, in tema di presentazione del reclamo presso la cancelleria del tribunale dove si trovava il difensore; Sez. 1, n. 2150 del 11/10/2018, dep. 2019, Natale, Rv. 276384, in tema di presentazione del reclamo per il tramite del servizio postale); che al tribunale di sorveglianza spettino poteri istruttori integrativi (Sez. 1, n. 23934 del 17/05/2013, Nardi, Rv. 256142). Del resto, sintomatica della natura di mezzo di impugnazione rivestita dal reclamo ex art. 69-bis, comma 3, Ord. pen. è l'esplicita previsione che, come si è visto, del collegio del tribunale di sorveglianza chiamato a pronunciarsi sul reclamo non può far parte il magistrato che ha adottato il provvedimento impugnato (art. 30-bis, quinto comma, Ord. pen., richiamato dall'art. 69-bis, comma 4, Ord. pen.). 7.2. La natura impugnatoria rivestita dal reclamo ex art. 69-bis, comma 3, Ord. pen. si salda con la centralità che, come si è visto, esso riveste nell'assicurare alla disciplina introdotta dalla legge n. 277 del 2002 la necessaria consonanza con i princìpi costituzionali e, segnatamente, con il diritto di difesa. Trova così conferma la necessità dell'intervento del difensore già nella fase immediatamente successiva all'adozione dell'ordinanza del magistrato di sorveglianza, così da consentire al condannato di avvalersi del contributo del difensore - di fiducia o, in mancanza, d'ufficio - nella scelta relativa all'an della presentazione del reclamo e, poi, nella predisposizione dell'atto di impugnazione. Invero, la Corte costituzionale ha affermato, in tema di esecuzione penale, che il diritto di difesa «comprende in sé, oltre la facoltà di difendersi riconosciuta al cittadino, anche, ove egli non la eserciti, l'obbligo per lo Stato di provvedere alla difesa di lui, con la nomina di un difensore» e questa esigenza, sul piano del diritto costituzionale, trova «tutela nell'art. 24, ove questo sia letto in collegamento con l'art. 13, che proclama l'inviolabilità della libertà personale e con l'art. 3 che, tutelando il principio di eguaglianza, postula che, in quel processo, la difesa d'ufficio debba essere sempre, sussidiariamente, presente, in tutti i casi che siano da considerarsi equivalenti sul piano della tutela della libertà dell'inquisito» (Corte cost., sent. n. 69 del 1970, che dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 del previgente codice di rito, nella parte in cui non prevedeva che, nel procedimento per incidenti di esecuzione, all'interessato fosse nominato d'ufficio un difensore, ove egli non avesse provveduto a nominarne uno di fiducia). Venendo in rilievo «l'interesse umano oggetto del procedimento, vale a dire quello supremo della libertà personale» (Corte cost., sent. n. 53 del 1968), l'assistenza tecnica del difensore deve essere obbligatoria e, quindi, prevedere anche, se necessario, la nomina dello stesso d'ufficio. Del resto, il punto 96 dell'art. 2 della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81 (recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale») prescriveva «garanzie di giurisdizionalità nella fase della esecuzione, con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza», «necessità del contraddittorio nei procedimenti incidentali, in materia di esecuzione» e «impugnabilità dei provvedimenti del giudice», in una prospettiva descritta dal giudice delle leggi come finalizzata al rispetto integrale delle «garanzie costituzionali del diritto di difesa e della tutela della libertà personale anche nella fase esecutiva della pena, in coerenza con il progetto rieducativo che questa sottende» (Corte cost., sent. n. 53 del 1993). Una prospettiva, questa, che non può rinunciare alla presenza del difensore, se del caso d'ufficio, al momento sia delle determinazioni in ordine alla presentazione del reclamo avverso l'ordinanza, anche in parte, reiettiva dell'istanza di concessione della liberazione anticipata, sia dell'individuazione dei contenuti del reclamo che il condannato abbia deciso di presentare. 8. Deve dunque essere enunciato il seguente principio di diritto: «L'ordinanza del magistrato di sorveglianza che decide sull'istanza di concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis, comma 1, Ord. pen.) deve essere in ogni caso notificata al difensore del condannato, se del caso nominato d'ufficio, legittimato a proporre reclamo. Quest'ultimo è soggetto alla disciplina generale delle impugnazioni». 9. Alla luce del principio di diritto enunciato, il ricorso deve essere accolto. La declaratoria di inammissibilità per tardività del reclamo proposto personalmente da Diletto è stata erroneamente pronunciata, in quanto, non avendo il magistrato di sorveglianza nominato un difensore d'ufficio al condannato che ne era privo e non avendo effettuato la notificazione dell'ordinanza al difensore, il termine per la presentazione del reclamo non era decorso. D'altra parte, come prospettato dal ricorso, l'atto in data 03/02/2020 presentato dal difensore di fiducia nel frattempo nominato in prossimità dell'udienza fissata dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Roma - che conteneva un'articolata serie di motivi e si concludeva con la richiesta (oltre che di accoglimento del reclamo presentato dal condannato) di concessione della liberazione anticipata per i periodi esclusi dal Magistrato di sorveglianza di Viterbo - deve essere qualificato come tempestivo reclamo del difensore. Tale tempestivo reclamo ha effetto sanante, ex art. 183 cod. proc. pen., della nullità di ordine generale determinata dalla violazione dei diritti della difesa collegata alla mancata nomina del difensore d'ufficio da parte del magistrato di sorveglianza. In difetto dell'indicato, tempestivo reclamo, l'annullamento dell'ordinanza impugnata sarebbe stato accompagnato dalla trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza per la notificazione al difensore dell'ordinanza emessa de plano, mentre il rilevato effetto sanante fa sì che debba disporsi il rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Roma. 10. Pertanto, l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Roma. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Roma. Così deciso il 25/02/2021. Il Componente estensore Il Presidente Angelo Caputo Margherita Cassano
Autore: Paolo Grasselli 23 settembre 2021
Con la sentenza in oggetto la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità dell'art. 79, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materie di spese di giustizia (Testo A)", nella parte in cui non consente al cittadino di Stati non appartenenti all'Unione Europea, in caso di impossibilità a presentare la documentazione richiesta ai sensi dell'art. 79, comma 2, di produrre, a pena di inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva di tale documentazione. Si riporta il testo della setenza in oggetto: SENTENZA N. 157 ANNO 2021 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», promossi dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, con due ordinanze del 14 giugno 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 142 e 143 del registro ordinanze 2020 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2020. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udita nella camera di consiglio del 9 giugno 2021 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta; deliberato nella camera di consiglio del 10 giugno 2021. Ritenuto in fatto 1.– Con due ordinanze del 14 giugno 2020, identiche nella motivazione ed iscritte, rispettivamente, ai numeri 142 e 143 reg. ord. del 2020, il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione sia all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sia all’art. 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, concernente «Disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa (Testo A)» – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui non prevede che, nei casi di impossibile produzione dell’attestazione consolare, i cittadini di Stati non aderenti all’Unione europea possano produrre «forme sostitutive di certificazione, in analogia agli istituti previsti dall’ordinamento nazionale», qualora dimostrino «di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la prevista attestazione consolare». 2.– In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di doversi pronunciare, in entrambi i giudizi a quibus, sulla richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato di due cittadini indiani, G. S. e B. S. Nelle due ordinanze, il TAR Piemonte espone che le istanze di ammissione a tale beneficio erano state avanzate dinanzi alla Commissione competente e che, a seguito della richiesta di integrazione documentale ai sensi della norma censurata, i due ricorrenti avevano prodotto nei rispettivi giudizi: copie del messaggio di posta elettronica certificata e della lettera raccomandata, inviati all’Ambasciata e al Consolato indiano in Italia, con i quali avevano richiesto l’attestazione della veridicità di quanto dichiarato in ordine ai redditi prodotti all’estero; nonché una autodichiarazione, con la quale ciascuno affermava di non disporre di tali redditi e dava atto di non aver avuto riscontro da parte dell’autorità consolare. In ambedue i provvedimenti introduttivi del giudizio di legittimità costituzionale, il Collegio rimettente riferisce che il giudice delegato per i rispettivi procedimenti, visto il verbale della Commissione per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, rigettava le istanze, dal momento che i ricorrenti non avevano prodotto la certificazione dell’autorità consolare competente che, ai sensi dell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, avrebbe dovuto attestare la veridicità di quanto indicato relativamente ai redditi prodotti all’estero. Il rimettente, infine, riferisce che i ricorrenti avevano proposto reclamo per la revoca del decreto di esclusione dal patrocinio a spese dello Stato. 3.– In punto di rilevanza, il rimettente espone che «una pedissequa applicazione della littera legis comporterebbe la reiezione del reclamo con conferma della mancata ammissione al patrocinio a spese dello Stato», sicché la norma censurata condizionerebbe la decisione sul ricorso presentato dagli istanti. 3.1.– Il giudice a quibus non ritiene, d’altro canto, possibile un’interpretazione della disposizione costituzionalmente orientata, in quanto non reputa praticabile l’estensione analogica dell’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia, difettando sia la lacuna normativa sia l’eadem ratio fra le due norme. In particolare, questa Corte, con la sentenza n. 237 del 2015, avrebbe rimarcato l’intenzione del legislatore di differenziare i regimi di accesso al patrocinio a spese dello Stato, in ragione della diversità di interessi coinvolti nel processo penale rispetto agli altri giudizi. 4.– Tanto premesso, e passando ad argomentare sulla non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente sostiene che la norma censurata comporterebbe un irragionevole vulnus al principio di eguaglianza nell’accesso alla tutela giurisdizionale, in quanto condizionerebbe il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, per i cittadini di Paesi non aderenti all’Unione europea, al rispetto di incombenze documentali, non sostituibili, neanche in caso di «inerzia di un soggetto pubblico terzo», «con gli istituti di semplificazione amministrativa e decertificazione documentale, previsti, invece, per i cittadini italiani e dell’Unione europea». 4.1.– In particolare, il giudice a quibus ritiene che l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia priverebbe di effettività l’art. 24 Cost., che, al terzo comma, richiede, viceversa, di assicurare ai non abbienti, con appostiti istituti, i mezzi per agire e difendersi, onde salvaguardare la pienezza del diritto alla tutela giurisdizionale consacrato nel suo primo comma. 4.2.– L’«effettività dell’accesso alla tutela giurisdizionale» – secondo il rimettente – «sarebbe [in particolare] svuotata della propria portata sostanziale [in quanto si farebbe gravare il rischio] dell’inerzia degli apparati amministrativi degli uffici consolari dei Paesi non appartenenti all’Unione europea [su] stranieri non abbienti». La disposizione violerebbe, dunque, l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto, in contrasto «con un naturale e immanente principio di auto-responsabilità», non prevede «un meccanismo alternativo che consenta al richiedente di prescindere dalla mancata collaborazione delle proprie Autorità consolari». Tale rilievo è aggravato, secondo il giudice a quibus, dalla considerazione che alcuni ordinamenti potrebbero finanche «disconoscere un obbligo di conclusione del procedimento a istanza di parte». 4.3.– Il vulnus risulterebbe, inoltre, confermato dal riferimento all’art. 113 Cost., secondo cui «è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi contro gli atti della pubblica amministrazione». «L’effettività di questa tutela» – rileva il giudice a quibus in riferimento al citato parametro costituzionale – «corre sul filo della concreta accessibilità su un [piano] di eguaglianza sostanziale per tutti […] non tollerando discriminazioni – dirette o indirette, de iure o de facto – fondate sullo status civitatis». 4.4.– Parimenti, il diritto a un accesso effettivo alla giustizia per coloro che non dispongano di sufficienti risorse troverebbe ulteriore protezione nell’art. 117, primo comma, Cost., relativamente all’art. 47 CDFUE, secondo cui «[o]gni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo» (paragrafo 1); «[a] coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia» (paragrafo 3). 4.5.– Giunto alla conclusione che la norma censurata si ponga in contrasto con i citati parametri costituzionali, il rimettente ritiene che, onde recuperare «[l]a tenuta costituzionale» della disposizione, basterebbe che essa «prevedesse, in via additiva, il soddisfacimento dell’onere documentale», «tramite forme sostitutive di certificazione, in analogia agli istituti previsti dall’ordinamento nazionale», «nei casi di impossibilità, comprovando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la prevista attestazione consolare, valutazione quest’ultima da rimettersi al prudente apprezzamento del giudicante». 4.6.– Alla denuncia della violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, che sfocia nella citata richiesta di pronuncia additiva, si aggiunge, ancora, la censura, sempre rispetto al medesimo parametro costituzionale, di una irragionevole disparità di trattamento fra stranieri di diverse nazionalità, a seconda della reattività e dell’efficienza dei rispettivi apparati burocratici. 4.7.– Infine, il giudice a quibus rileva un «profilo di tensione» della norma censurata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente a «tutte le convenzioni internazionali, stipulate e stipulande dallo Stato [i]taliano, che prevedano bilateralmente e multilateralmente l’estensione degli istituti della decertificazione amministrativa». L’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, prevede, infatti, che i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea autorizzati a soggiornare nel territorio dello Stato «possono utilizzare le dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47» dello stesso d.P.R., nei casi in cui la produzione delle stesse avvenga in applicazione di convenzioni internazionali fra l’Italia ed il Paese di provenienza del dichiarante». 5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate. 5.1.– Secondo la difesa erariale, le questioni sarebbero inammissibili, innanzitutto, per difetto di rilevanza, dal momento che il ricorso avverso il decreto prefettizio, che aveva negato la conversione del permesso di soggiorno per lavoro stagionale, è stato accolto con le sentenze n. 253 e n. 254 del 2020 dall’autorità giurisdizionale rimettente. Di conseguenza, la rilevanza non sussisterebbe per un duplice motivo: da un lato, se il ricorrente ha ottenuto il bene della vita a cui aspirava, ciò significa – a parere dell’Avvocatura generale – che l’accesso alla tutela è stato pieno ed effettivo; dall’altro lato, «se il giudice amministrativo ha deciso il ricorso in relazione al quale era stato chiesto il gratuito patrocinio, non può, poi, con successiva ordinanza […] sollevare questione di legittimità costituzionale». 5.2.– Una seconda eccezione di inammissibilità riguarda il carattere manipolativo della sentenza invocata dal rimettente, che non sarebbe praticabile nel contesto normativo di riferimento. L’istituto del patrocinio a spese dello Stato rientra nella disciplina processuale, per la quale il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte. Nell’esercizio di tale discrezionalità, il legislatore avrebbe individuato alcune regole valide per il solo processo penale, tra cui quella che ammette l’autodichiarazione, qualora sia impossibile ottenere la certificazione da parte dell’autorità consolare. Nell’ottica, dunque, della differenziazione tra distinti giudizi, tale norma, a parere dell’Avvocatura generale, sarebbe espressione della volontà di escludere la possibilità di autodichiarazione nei giudizi diversi da quello penale. Di conseguenza, nel descritto quadro normativo, risulterebbe inammissibile una pronuncia, come quella proposta dal Collegio rimettente, connotata da un elevato tasso di manipolatività. 6.– In ogni caso, le questioni di legittimità costituzionale risulterebbero, a parere dell’Avvocatura, non fondate. In relazione ai primi due parametri evocati – gli artt. 24 e 113 Cost. – la difesa erariale afferma che la diversa disciplina prevista dal legislatore per alcune fattispecie, quali il processo penale (art. 94 t.u. spese di giustizia) o quello avverso il provvedimento di espulsione (art. 142 t.u. spese di giustizia), troverebbe giustificazione nella loro peculiarità, mentre la norma censurata non priverebbe di effettività l’accesso alla tutela giurisdizionale, ma realizzerebbe un indispensabile contemperamento fra contrapposti interessi, in un sistema a risorse economiche limitate. In riferimento all’art. 3 Cost., l’Avvocatura generale considera che l’autocertificazione rinviene il proprio fondamento nella disciplina di cui al d.P.R. n. 445 del 2000, ovvero nella verificabilità d’ufficio delle dichiarazioni sostitutive di certificazione. Per il cittadino di uno Stato che non possa invocare neppure una convenzione bilaterale con l’Italia non sarebbe possibile un controllo di questo tipo; di conseguenza, non sarebbe consentito autocertificare il possesso dei requisiti per l’accesso al beneficio. A parere dell’Avvocatura generale, infine, non risulterebbe sviluppato adeguatamente il richiamo al parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 47 CDFUE, che trova applicazione nei soli settori ascrivibili alla competenza del diritto dell’Unione europea. Il giudice rimettente non avrebbe, in particolare, motivato perché il diritto che il ricorrente intendeva tutelare in sede giudiziale ricadrebbe nel raggio di applicazione del parametro interposto, tanto più che la fattispecie – la conversione di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro – non sembrerebbe rientrare né nell’ambito riconducibile all’art. 15 CDFUE (Libertà professionale e diritto di lavorare), né in quello riferibile all’art. 19 CDFUE (Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione). Considerato in diritto 1.– Con due ordinanze del 14 giugno 2020, identiche nella motivazione ed iscritte, rispettivamente, ai numeri 142 e 143 reg. ord. del 2020, il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione sia all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sia all’art. 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, concernente «Disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa (Testo A)» – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui non prevede che, nei casi di impossibile produzione dell’attestazione consolare, i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea possano produrre «forme sostitutive di certificazione, in analogia agli istituti previsti dall’ordinamento nazionale», qualora dimostrino «di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la prevista attestazione consolare». 1.1.– L’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia stabilisce, infatti, che «[p]er i redditi prodotti all’estero, il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea correda l’istanza con una certificazione dell’autorità consolare competente, che attesta la veridicità di quanto in essa indicato». 2.– Il giudice rimettente riferisce di doversi pronunciare, in entrambi i giudizi a quibus, sul rigetto della richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato di due cittadini indiani, la cui istanza era stata respinta dal giudice delegato, visto il verbale della commissione competente, proprio in ragione della mancata presentazione della certificazione dell’autorità consolare, richiesta dalla norma censurata. In punto di rilevanza, il TAR Piemonte evidenzia, pertanto, che l’applicazione di tale disposizione condiziona l’esito dei giudizi a quibus. 3.– Secondo il Collegio, se l’esclusione dal patrocinio a spese dello Stato di uno straniero non abbiente, cittadino di un Paese non appartenente all’Unione europea, «viene a dipendere dall’inerzia di un soggetto pubblico terzo, non sopperibile [...] con gli istituti di semplificazione amministrativa e decertificazione documentale previsti, invece, per i cittadini italiani e dell’Unione europea», si verrebbe a creare un irragionevole vulnus al principio di eguaglianza nell’accesso alla tutela giurisdizionale. In particolare, la norma censurata si porrebbe irragionevolmente in contrasto con l’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, violando gli artt. 3, 24, 113 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 47 CDFUE, poiché «svuoterebbe tale diritto] della [sua] portata sostanziale in conseguenza dell’inerzia degli apparati amministrativi degli uffici consolari dei Paesi non appartenenti all’Unione europea». La disposizione, pertanto, contrasterebbe con il principio di autoresponsabilità, riconducibile alla ragionevolezza, di cui al citato art. 3 Cost., là dove addosserebbe al richiedente le conseguenze sfavorevoli di un comportamento a lui non riferibile. Infine, il rimettente denuncia una irragionevole disparità di trattamento fra cittadini di differenti Paesi non aderenti all’Unione europea, in ragione della possibile diversa efficienza dei rispettivi apparati burocratici, nonché – in relazione all’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000 – una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., relativamente a «tutte le convenzioni internazionali, stipulate e stipulande dallo Stato Italiano, che prevedano bilateralmente e multilateralmente l’estensione degli istituti della decertificazione amministrativa». 4.– Secondo il rimettente per recuperare «[la] tenuta costituzionale» della disposizione sarebbe necessario che essa «prevedesse, in via additiva, il soddisfacimento dell’onere documentale», tramite «forme sostitutive di certificazione, in analogia agli istituti previsti dall’ordinamento nazionale», «nei casi di impossibilità [ad ottenere la prevista attestazione consolare], comprovando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza […], valutazione quest’ultima da rimettersi al prudente apprezzamento del giudicante». 5.– Le due ordinanze di rimessione pongono questioni sostanzialmente identiche in relazione alle disposizioni censurate e ai parametri evocati: pertanto, i giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi con un’unica sentenza. 6.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate. 6.1.– Con una prima eccezione, l’Avvocatura generale fa presente che i giudizi principali, per i quali gli istanti avevano richiesto l’accesso al patrocinio a spese dello Stato, sono stati decisi con le sentenze n. 253 e n. 254 del 2020, dalla stessa autorità giurisdizionale rimettente. Di conseguenza, secondo la difesa erariale, la rilevanza non sussisterebbe, avendo i ricorrenti ottenuto il bene della vita a cui aspiravano, il che dimostrerebbe un accesso pieno ed effettivo alla tutela giurisdizionale. Inoltre, «se il giudice amministrativo ha deciso il ricorso in relazione al quale era stato chiesto il gratuito patrocinio, non può poi, con successiva ordinanza […] sollevare questione di legittimità costituzionale», in quanto si sarebbe «spogliato del processo». L’eccezione non è fondata. La decisione sul patrocinio a spese dello Stato è diversa e indipendente rispetto a quella relativa al merito della controversia, il che rende possibile una sua adozione «in ogni tempo […] e, dunque, sia prima che la causa pervenga alla sentenza sia dopo la pronuncia definitiva» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 febbraio 2020, n. 4315, nello stesso senso anche Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 novembre 2018, n. 29462). D’altro canto, i giudizi sull’ammissione al patrocinio a spese dello Stato incidono sull’imputazione dei costi relativi al compenso dovuto al difensore per l’opera prestata nell’ambito del processo. Il TAR Piemonte, con le sentenze n. 253 e n. 254 del 2020, con le quali ha deciso le questioni relative all’annullamento del decreto prefettizio di rigetto della domanda di conversione del permesso di soggiorno, si è riservato, non a caso, di pronunciarsi sia sull’ammissione al patrocinio a spese dello Stato sia sulle spese di giudizio. Non può, pertanto, ritenersi che si sia «spogliato del processo». Per le ragioni esposte cade il dubbio sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, norma che trova sicura applicazione nei giudizi a quibus, dal momento che i soggetti istanti sono cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità delle questioni, è sufficiente che la norma impugnata sia applicabile nel giudizio a quo (sentenze n. 253 del 2019, n. 46 e n. 5 del 2014 e n. 294 del 2011) e che la pronuncia di accoglimento possa influire «sull’esercizio della funzione giurisdizionale, quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo che sostiene la decisione del processo principale (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010)» (sentenza n. 20 del 2016; in senso conforme sentenza n. 84 del 2021). 6.2.– L’Avvocatura generale ha sollevato, poi, una seconda eccezione di inammissibilità, adducendo che il rimettente avrebbe invocato una sentenza manipolativa non costituzionalmente obbligata in una materia riservata alle scelte discrezionali del legislatore. Anche questa eccezione non è fondata. Vero è che questa Corte ha più volte ribadito che le scelte adottate dal legislatore nel regolare l’istituto del patrocinio a spese dello Stato sono connotate da una rilevante discrezionalità, che è doveroso preservare (sentenza n. 47 del 2020; ordinanze n. 3 del 2020 e n. 122 del 2016). Tuttavia, questo non sottrae tale normazione al giudizio sulla legittimità costituzionale, in presenza di una «manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (da ultimo, sentenze n. 97 del 2019 e n. 81 del 2017; ordinanza n. 3 del 2020)» (sentenza n. 47 del 2020), in quanto è necessario «evitare zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale, tanto più ove siano coinvolti i diritti fondamentali e il principio di eguaglianza, che incarna il modo di essere di tali diritti» (sentenza n. 63 del 2021). Deve poi aggiungersi che la «ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (si veda, da ultimo, la sentenza n. 252 del 2020 e in senso conforme le sentenze n. 224 del 2020; n. 99 del 2019; n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018; n. 236 del 2016)» (sentenza n. 63 del 2021). In tale prospettiva, onde non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento, la valutazione della Corte deve essere condotta attraverso «“precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti” (ex multis, sentenze n. 224 del 2020 e n. 233 e n. 222 del 2018; n. 236 del 2016)». (sentenza n. 63 del 2021). Nello specifico contesto, il giudice rimettente sollecita un intervento additivo di questa Corte, che in effetti rinviene nell’ordinamento «precisi punti di riferimento» sia nell’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia sia nell’art. 16 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), che richiama espressamente il citato art. 94. 7.– Nel merito, occorre, innanzitutto, verificare se l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia contrasti con l’art. 3 Cost., in coordinamento con gli artt. 24 e 113 Cost., nella parte in cui non prevede che i cittadini di Stati non aderenti all’Unione europea possano presentare «forme sostitutive di certificazione», «comprovando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la prevista attestazione consolare», la cui allegazione risulta, pertanto, impossibile. 8.– Le questioni sono fondate. 8.1.– La norma censurata si inquadra nell’ambito della disciplina sul patrocinio a spese dello Stato, vòlto a dare attuazione alla previsione costituzionale, secondo cui devono essere assicurati «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (art. 24, terzo comma, Cost.). L’istituto serve, dunque, a rimuovere, in armonia con l’art. 3, secondo comma, Cost. (sentenza n. 80 del 2020), «le difficoltà di ordine economico che possono opporsi al concreto esercizio del diritto di difesa» (sentenza n. 46 del 1957, di seguito citata dalla sentenza n. 149 del 1983; in senso analogo, le sentenze n. 35 del 2019, n. 175 del 1996 e n. 127 del 1979), assicurando l’effettività del diritto ad agire e a difendersi in giudizio, che il secondo comma del medesimo art. 24 Cost. espressamente qualifica come diritto inviolabile (sentenze n. 80 del 2020, n. 178 del 2017, n. 101 del 2012 e n. 139 del 2010; ordinanza n. 458 del 2002). «L’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti», ha osservato questa Corte, «è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all’art. 2 della Costituzione […] e caratterizzanti lo stato democratico di diritto» (sentenza n. 26 del 1999; in senso conforme sentenze n. 238 del 2014, n. 120 del 2014 e ordinanza n. 386 del 2004). Esso è riconosciuto a tutti, dal primo comma dell’art. 24 Cost., e a tutti spetta, com’è proprio dei diritti ascrivibili all’alveo dell’art. 2 Cost., riferito in maniera cristallina all’uomo. 8.2.– D’altro canto, la natura inviolabile del diritto ad accedere ad una tutela effettiva, ai sensi dell’art. 24, terzo comma, Cost., non lo sottrae al bilanciamento di interessi che, per effetto della scarsità delle risorse, si rende necessario rispetto alla molteplicità dei diritti che ambiscono alla medesima tutela. Questa Corte «ha sottolineato che, in tema di patrocinio a spese dello Stato, è cruciale l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia (sentenza n. 16 del 2018)» (sentenza n. 47 del 2020). In tale «prospettiva si spiega», prosegue la sentenza n. 47 del 2020, «che per tutti i processi diversi da quello penale (civile, amministrativo, contabile, tributario e di volontaria giurisdizione) per il riconoscimento del beneficio è richiesto […] che le ragioni di chi agisce o resiste “risultino non manifestamente infondate”», onde evitare che i non abbienti siano indotti «a intentare cause palesemente infondate senza dover tener conto del loro peso economico». Diversamente, «[a]ppare giustificato [che, nel caso del processo penale, in cui l’azione viene subita da chi aspira al patrocinio a spese dello Stato], venga assicurata […] una più intensa protezione, sganciando l’ammissione al beneficio de quo da qualsiasi filtro di non manifesta infondatezza delle ragioni del soggetto interessato» (ancora sentenza n. 47 del 2020). Appare allora evidente la motivazione che può rendere non irragionevole il variare di talune regole in funzione dei processi interessati dalla richiesta di accesso al patrocinio a spese dello Stato (si vedano, in senso analogo, anche le ordinanze n. 270 del 2012, n. 201 del 2006 e 350 del 2005, con riferimento alla liquidazione degli onorari e dei compensi ai difensori, di cui all’art. 130, t.u. spese di giustizia, e la sentenza n. 237 del 2015, relativa alla quantificazione dei limiti di reddito, di cui all’art. 92, t.u. spese di giustizia). Non viene in considerazione un presunto diverso rango assiologico del diritto alla tutela giurisdizionale, associato ai differenti processi, quanto piuttosto sono le caratteristiche di questi ultimi a poter condizionare il bilanciamento di interessi rispetto a specifiche disposizioni. «Va da sé», ha rilevato sempre questa Corte, «che [la] diversità fra “gli interessi civili” e le “situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio della azione penale” implica non già la determinazione di una improbabile gerarchia di valori fra gli uni e le altre, ma soltanto l’affermazione dell’indubbia loro distinzione, tale da escludere una valida comparabilità fra istituti che concernano ora gli uni ora le altre (in particolare, le ordinanze n. 270 del 2012; n. 201 del 2006 e n. 350 del 2005)» (sentenza n. 237 del 2015). 8.3.– Tanto premesso, il testo unico in materia di spese di giustizia introduce, nell’art. 119, con riferimento al patrocinio a spese dello Stato nei processi civile, amministrativo, contabile e tributario, una equiparazione al trattamento previsto per il cittadino italiano di quello relativo allo «straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare». Sennonché, a fronte di tale equiparazione, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia stabilisce che, per i soli cittadini di Paesi non aderenti all’Unione europea, «i redditi prodotti all’estero [debbano essere certificati dalla] autorità consolare competente, che attest[i] la veridicità di quanto in essa indicato», senza contemplare alcun rimedio all’eventuale condotta non collaborativa di tale autorità e, dunque, all’impossibilità di produrre la relativa certificazione. Per converso, nella disciplina riservata al processo penale, l’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia prevede che «in caso di impossibilità a produrre la documentazione richiesta ai sensi dell’art. 79, comma 2, il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea, la sostituisce, a pena di inammissibilità, con una dichiarazione sostitutiva di certificazione». 8.4.– Orbene, deve rilevarsi, innanzitutto, che l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia palesa rilevanti distonie, posto che, avvalendosi del mero criterio della cittadinanza, richiede, stando alla sua lettera, la certificazione dell’autorità consolare competente per i redditi prodotti all’estero solo ai cittadini di Stati non aderenti all’Unione europea e non anche a quelli italiani o ai cittadini europei, che pure possano aver prodotto redditi in Paesi terzi rispetto all’Unione europea; al contempo, la medesima disposizione sembra pretendere dai cittadini degli Stati non aderenti all’Unione europea la certificazione consolare per qualsivoglia reddito prodotto all’estero, compresi quelli realizzati in Paesi dell’Unione. Ma soprattutto, anche a voler prescindere da tali anomalie, non può tacersi la manifesta irragionevolezza che deriva dalla mancata previsione, nell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, per i processi civile, amministrativo, contabile e tributario, di un meccanismo che – come, viceversa, stabilisce per il processo penale l’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia – consenta di reagire alla mancata collaborazione dell’autorità consolare, così bilanciando la necessità di richiedere un più rigoroso accertamento dei redditi prodotti in Paesi non aderenti all’Unione europea, per i quali è più complesso accertare la veridicità di quanto dichiarato dall’istante, con l’esigenza di non addebitare al medesimo richiedente anche il rischio dell’impossibilità di procurarsi la specifica certificazione richiesta. 8.5.– La distinzione tra processo penale e altri processi (civile, amministrativo, contabile e tributario) può giustificare, dunque, – come sopra illustrato – che vengano ritenute non irragionevoli, se correlate alle diverse caratteristiche e implicazioni dei vari processi, talune differenziazioni nella disciplina del patrocinio a spese dello Stato. Tuttavia, tale dicotomia non può in alcun modo legittimare, rispetto ai parametri costituzionali invocati, la mancata previsione di un correttivo, nell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, che permetta di superare l’ostacolo creato dalla condotta omissiva, o in generale non collaborativa, dell’autorità consolare. 8.5.1.– La disposizione censurata, infatti, in contrasto con la ragionevolezza e con il principio di autoresponsabilità, inficia la possibilità di un accesso effettivo alla tutela giurisdizionale, facendo gravare sullo straniero proveniente da un Paese non aderente all’Unione europea il rischio dell’impossibilità di produrre la sola documentazione ritenuta necessaria, a pena di inammissibilità, per comprovare i redditi prodotti all’estero. Più precisamente, la norma censurata sottende, secondo il diritto vivente, una presunzione che lo straniero abbia redditi all’estero (si vedano Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione di Napoli, sentenze 3 maggio 2021, n. 2913, 30 aprile 2021, n. 2887, 28 aprile 2021, n. 2777; Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione di Roma, sentenza 13 gennaio 2020, n. 298, decreti 22 ottobre 2018, n. 10237 e 19 luglio 2018, n. 8135; Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, sentenza 11 ottobre 2019, n. 1350; Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 30 luglio 2020, n. 16424; con la sola eccezione della sentenza della Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 9 febbraio 2018, n. 6529). Tale presunzione implica un onere gravoso, specie quando la prova abbia un contenuto negativo, poiché tali redditi in effetti non sussistono, il che può ritenersi ipotesi non rara, se è vero che spesso è proprio lo stato di indigenza ad indurre le persone ad emigrare. Inoltre, sempre la norma censurata consente di vincere la presunzione solo con le forme documentali da essa previste, vale a dire con la certificazione dell’autorità consolare competente, prescindendo dall’eventuale esistenza di altre prove circa l’effettiva consistenza dei propri redditi all’estero. Ma soprattutto, e questo è il profilo che palesa nella maniera più evidente il vulnus costituzionale, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia fa gravare sull’istante il rischio del fatto del terzo (ossia l’autorità consolare), la cui eventuale inerzia o inadeguata collaborazione rendano impossibile produrre tempestivamente la corretta certificazione richiesta. Questa Corte, viceversa, anche di recente ha ribadito, relativamente alla documentazione necessaria ad accedere ai benefici dell’edilizia residenziale pubblica, che non possono «gravare sul richiedente le conseguenze del ritardo o delle difficoltà nell’acquisire la documentazione in parola, ciò che la renderebbe costituzionalmente illegittima in quanto irragionevolmente discriminatoria» (sentenza n. 9 del 2021). Gli stessi principi sono stati, del resto, affermati in materia di notifiche, là dove la Corte ha ritenuto «palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere […] dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al medesimo notificante, ma a soggetti diversi […] e che, perciò resta del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo» (sentenza n. 447 del 2002, che estende a tutte le notifiche quanto già previsto per le notifiche all’estero dalla sentenza n. 69 del 1994. Il principio generale è stato poi ripreso dalle sentenze n. 3 del 2010, n. 318 del 2009, n. 28 del 2004 e dalle ordinanze n. 154 del 2005, n. 118 del 2005 e n. 153, n. 132 e n. 97 del 2004). In definitiva, contrasta con gli artt. 3, 24 e 113 Cost. una previsione, come quella della norma censurata, che fa gravare sull’istante il rischio della impossibilità di produrre una specifica prova documentale richiesta per ottenere il godimento del patrocinio a spese dello Stato; essa, infatti, impedisce – a chi è in una condizione di non abbienza – l’effettività dell’accesso alla giustizia, con conseguente sacrificio del nucleo intangibile del diritto alla tutela giurisdizionale. 8.5.2.– Tanto considerato, risulta meritevole di accoglimento la richiesta del rimettente di una pronuncia additiva, che eviti il contrasto con il principio di autoresponsabilità, tramite l’aggiunta di una previsione che già trova riscontro nella disciplina dettata dall’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia, per il processo penale, nonché dall’art. 16 del d.lgs. n. 25 del 2008, per l’impugnazione in sede giurisdizionale delle decisioni sullo status di rifugiato, che al medesimo art. 94 si richiama. Il problema relativo alla documentazione dei redditi prodotti in Paesi non aderenti all’Unione europea non presenta, infatti, a ben vedere, alcuna ragionevole correlazione con la natura dei processi, nei quali si richiede il beneficio del patrocinio a spese dello Stato. In linea, dunque, con le citate disposizioni, la legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia può essere ricostituita, integrando la previsione sull’onere probatorio, con la possibilità per l’istante di produrre, a pena di inammissibilità, una «dichiarazione sostitutiva di certificazione» relativa ai redditi prodotti all’estero, una volta dimostrata l’impossibilità di presentare la richiesta certificazione. In tal modo, analogamente a quanto previsto per il processo penale e per l’impugnazione in sede giurisdizionale dello status di rifugiato, la disposizione censurata può essere resa conforme alla disciplina generale che concretizza il principio di autoresponsabilità. Tale principio, che implica quale corollario quello secondo cui ad impossibilia nemo tenetur, non solo esclude che si possa far gravare sull’istante il rischio dell’impossibilità di procurarsi la documentazione consolare, ma oltretutto impedisce di pretendere la probatio spesso diabolica del fatto oggettivo costitutivo di un’impossibilità in termini assoluti. Questo sposta la categoria dell’impossibilità verso una accezione relativa, che si desume in controluce rispetto al comportamento esigibile, suscettibile cioè di essere preteso in base alla regola di correttezza, nella misura dell’impegno derivante dal canone di diligenza: l’impossibilità relativa inizia (ed è implicitamente dimostrata) là dove finisce il comportamento esigibile (ex fide bona e) secondo diligenza (in termini simili sentenza n. 9 del 2021). Non a caso, anche nell’interpretazione che dell’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia offre la Corte di cassazione, il cittadino di Paesi non aderenti all’Unione europea non deve provare un’impossibilità in senso assoluto di avvalersi dell’autocertificazione, ma è sufficiente che dimostri un’impossibilità in senso relativo, desumibile in via presuntiva dalla circostanza che «il richiedente si sia utilmente e tempestivamente attivato per ottenere le previste certificazioni» (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 26 maggio 2009, n. 21999). La prova dell’impossibilità assoluta viene, infatti, ritenuta «di per sé incompatibile con un procedimento teso ad assicurare la difesa al non abbiente» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 22 febbraio 2018, n. 8617). A fronte, dunque, dell’impossibilità di ottemperare all’onere di esibire la documentazione consolare, deve riespandersi, a favore dell’istante, l’opportunità di avvalersi della dichiarazione sostitutiva di certificazione. 9.– In conclusione, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia risulta costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente al cittadino di uno Stato non aderente all’Unione europea di presentare, a pena di inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva di certificazione sui redditi prodotti all’estero, qualora dimostri – nei termini sopra illustrati, ossia provando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo correttezza e diligenza – l’impossibilità di produrre la richiesta documentazione. 10.– Restano assorbite le questioni di legittimità costituzionale poste in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra stranieri di Paesi non appartenenti all’Unione europea, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente all’art. 47 CDFUE, nonché relativamente alle convenzioni internazionali, che prevedano l’estensione degli istituti della decertificazione amministrativa. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui non consente al cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea, in caso di impossibilità a presentare la documentazione richiesta ai sensi dell’art. 79, comma 2, di produrre, a pena di inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva di tale documentazione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2021. F.to: Giancarlo CORAGGIO, Presidente Emanuela NAVARRETTA, Redattrice Filomena PERRONE, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2021. Il Cancelliere F.to: Filomena PERRONE
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