Con la pronuncia in oggetto la Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sembra allontanarsi dalla teoria della scriminante del rischio consentito nell’ambito di attività sportive, in favore di una responsabilità penale che possa essere inquadrata per il tramite dell'ordinario criterio della colpevolezza.
Il caso di specie ha ad oggetto una pronuncia della Corte d’Appello di Firenze, la quale, previa riqualificazione della condotta contestata da lesioni aggravate dolose in lesioni colpose ex art. 590 c.p., confermava la sentenza del Tribunale di Lucca, con cui si riteneva penalmente responsabile l’imputato per aver cagionato, durante una partita amatoriale di calcio a cinque, delle lesioni personali alla persona offesa.
Avverso tale pronuncia veniva presentato ricorso per Cassazione ove si lamentava, in uno dei motivi, che l’intensità del danno cagionato (oltre 40 giorni di prognosi), utilizzato dai giudici di merito per inquadrare giuridicamente la vicenda in esame, non è un criterio adeguato, poiché una responsabilità penale nell’ambito di un’attività sportiva può sussistere solo in presenza della volontarietà di cagionare il danno, ergo del dolo, versando pertanto nella esimente del rischio consentito in presenza di una condotta involontaria, così come da orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità.
Sebbene la Suprema Corte annulla l’impugnata sentenza con rinvio al giudice civile in quanto il reato è oramai prescritto, trova comunque occasione per rielaborare il percorso giurisprudenziale sulla causa di giustificazione in oggetto, ovvero della scriminante atipica, rectius non codificata, del rischio consentito.
Come noto, tale esimente concede l’assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale relativo all’integrità fisica, purché non sia travalicato il dovere di lealtà sportiva, ovvero che siano rispettate le norme che disciplinano l'attività agonistica e che l'atleta non esponga l'avversario ad un rischio superiore a quello consentito in quella determinata pratica.
In tale prospettiva, dunque, il rischio consentito è stato identificato con quell’area di non punibilità delineata dalle regole della disciplina sportiva, che individua, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, anche in forma agonistica, un determinato sport.
Ciò ha dato modo di formulare delle prime considerazioni, ovvero che nello sport in cui è previsto un contatto fra atleti, ciò che è espressamente consentito dal regolamento, ancorché produca un danno, è comunque lecito sportivo, e pertanto deve ritenersi accettato da coloro che lo praticano (si pensi ad esempio alla disciplina della boxe).
Il problema sorge invece quando la lesione all’incolumità personale sia cagionata dalla violazione della regola sportiva, dovendo quindi tracciare la linea di confine tra illecito sportivo ed illecito penale.
Il primo, spiega la Corte, sussiste ogni qual volta l’elusione della regola sportiva rappresenta comunque il fisiologico sviluppo di un’azione comunque proiettata al conseguimento del risultato sportivo, e non sia connotata da volontarietà (si pensi ad esempio all’eccessiva vigoria nella pratica agonistica).
Al contrario, quando la violazione della regola sia voluta e non sia orientata al conseguimento del risultato, si entra nell’area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo, quando la lesione sia volontaria, o della colpa, quando la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all’avversario ma al conseguimento, in forma antisportiva, di un obbiettivo agonistico.
Tuttavia, secondo il Supremo Collegio, tale discrimine fra illecito sportivo ed illecito penale non può considerarsi pienamente soddisfacente, “perché essa implica che l'attività sportiva costituisca una causa di giustificazione, laddove, invece essa è attività lecita e regolata dalla normazione di ciascun specifico settore disciplinare”, pertanto, “responsabilità sportiva e responsabilità penale, infatti, si muovono su piani parzialmente diversi e solo parzialmente intersecanti, essendo la prima disciplinata dai rispettivi regolamenti, che definiscono i limiti della correttezza del gioco, la seconda potendo sussistere solo quando l'evento lesivo derivi da una condotta dolosa o colposa dell’agente”.
Pertanto, tolto il caso di dolosa causazione dell’evento lesivo, rimane da analizzare quale sia il rapporto tra la regola sportiva e quella cautelare volta ad evitare il prodursi di eventi dannosi, dovendo necessariamente rifarsi alla teoria della colpevolezza colposa, “individuando la regola cautelare che presidia l'attività, concentrandosi sulla doverosità della condotta richiesta, in cui rientra la condotta prudente, perita, non negligente”.
Nell’accettazione del regolamento, dunque, si rinviene la liceità sportiva, che, tuttavia, non racchiude in sé anche la liceità penale, la quale richiede, oltre al rispetto della regola sportiva, anche il limite della prudenza, della perizia e della diligenza affinché l’azione possa non nuocere, valutata ex ante in base ai criteri di cui agli art. 43 c.p., dove, a prescindere della regola cautelare preesistente, si dovrà vagliare la prevedibilità dell’evento “essendo al contempo imposto al giudice di verificare se l'azione, che rientri nel lecito sportivo, in quanto non violante alcuna regola, sia posta in essere nei limiti della prudenza, in modo da non cagionare, per l'eccesso nella gestione del gesto atletico o per l'eccessività ed inutilità al fine sportivo del contrasto opposto, un danno prevedibile all'altrui integrità fisica”.
Alla stregua di tali premesse, pertanto, la Suprema Corte, distaccandosi dalla teoria del rischio consentito, propende per un responsabilità penale che deriva non dall’entità del danno cagionato ma dalla disapplicazione della norma cautelare prestabilita per evitare l’evento dannoso.
Si riporta il testo della sentenza n. 3284/21
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
****** nato a BARGA il 26/06/1990
avverso la sentenza del 21/01/2020 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MAURA NARDIN;
letta la requisitoria del Procuratore genrale, in persona del Sostituto Procuratore
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 21 gennaio 2020 a Corte d'Appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Lucca con cui ******* è stato ritenuto responsabile del reato all'art. 590 cod. pen., previa riqualificazione dell'originaria imputazione di lesioni volontarie aggravate, per avere, nel corso di una partita amatoriale di calcio a cinque, cagionato lesioni personali a ******, consistite nella "frattura scomposta pluriframmentaria del terzo distale della riva con diastasi dei monconi ossei e plurime rime fratturate che
coinvolgevano la superficie articolare. Frattura scomposta angolata del terzo distale della dialisi personale con frammenti ossei in adiacenza al focolaio fratturato. Esile rima fratturata di frazione composta del processo posteriore dell'astragalo", con conseguente incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per una durata superiore a quaranta giorni.
2. Avverso la sentenza propone ricorso *******, a mezzo del suo difensore, affidandolo a tre motivi di impugnazione.
3. Con il primo fa valere la violazione della legge penale con riferimento al disposto degli artt. 590 e 50 cod. pen., ed il vizio di motivazione. Osserva che la sentenza di primo grado, dopo avere correttamente inquadrato la scriminante del rischio consentito, in ambito sportivo, giunge a conclusioni -integralmente riprese dalla Corte di appello- del tutto errate, facendo discendere la responsabilità di ****** dall'intensità del danno provocato alla parte civile. Assume che lamotivazione si pone in contraddizione con l'elaborazione della giurisprudenza e della dottrina sull'estensione della scriminante atipica del rischio consentito, secondo cui la violazione delle norme sportive, che regolano la disciplina, non è idonea di per sé a configurare l'illecito penale, ove essa non sia volontaria, ma si presenti come lo sviluppo fisiologico di un'azione. Diversamente si realizzerebbe la coincidenza fra i due illeciti, venendo meno la ragion d'essere della causa di giustificazione del rischio consentito. Ciò implica che non possa desumersi la
sussistenza dell'illecito penale dalla gravità delle lesioni patite dalla persona offesa, dovendosi, invece, tenere in considerazione la condotta dell'agente nell'ambito del contesto di gioco in cui si è verificata. Nel caso di specie, è emerso che l'intervento
in scivolata di Panzani sull'avversario è intervenuto durante il contropiede, avendo un giocatore della sua squadra dell'imputato appena perduto la palla. Dunque, la violazione dell'art. 12 del Regolamento FIGC, -che punisce chi con comportamento negligente o imprudente o con vigoria sproporzionata effettua un tackle sull'avversario- non è stata volontaria. Sostiene che l'errore in cui sono
incorsi i giudici di merito è stato quello di far discendere dalla gravità delle lesioni, la volontarietà della violazione delle regole di gioco. Al contrario, sulla base dei presupposti enunciati, è chiaro che una violazione volontaria che procuri un danno può costituire illecito penale, mentre una violazione involontaria, dettata dalla concitazione dell'azione, che procuri un danno grave rientra nel c.d. rischio
consentito.
4. Con il secondo motivo lamenta la falsa applicazione dell'art. 62 bis cod. pen. ed il vizio di motivazione, per non avere il giudice di secondo grado, nonostante la sollecitazione introdotta con l'appello, fornito motivazione alcuna sul diniego delle circostanze attenuanti generiche, facendo ricorso ad una formulazione apodittica, secondo cui il loro riconoscimento 'non trova
giustificazione, nonostante l'incensuratezza dell'imputato e la correttezza del comportamento processuale.
5. Con il terzo motivo si duole della violazione dell'art. 1223 cod. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto cumulabile il risarcimento da fatto illecito con quello ottenuto a titolo di indennizzo assicurativo, in forza della polizza infortuni privatamente sottoscritta dalla persona offesa, senza tenere in considerazione che le Sezioni Unite civili, con la sentenza n. 12565/2018 hanno enunciato il principio
secondo il quale il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare risarcibile l'importo dell'indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in
conseguenza del fatto. Essendo il danno stato integralmente risarcito dall'assicurazione stipulata dal danneggiato, quindi, il ricorrente deve andare esente dalla condanna al risarcimento dei danni. Conclude per l'annullamento della sentenza impugnata.
6. Con requisitoria scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8 d.l. 137/2020 il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il reato deve essere dichiarato estinto per essere maturato il termine di cui agli artt. 157 e 161 cod. pen., alla data del 31 gennaio 2019, tenuto conto delle sospensioni intervenute nel corso del processo.
2. Debbono, nondimeno, essere esaminate le doglianze che ineriscono all'azione civile.
3. Il primo motivo è fondato.
4. Il ricorrente invoca la causa di giustificazione del c.d. del rischio consentito, come elaborata dalla giurisprudenza in relazione alle attività sportive, secondo cui "L esercizio di attività sportiva costituisce una causa di giustificazione, non
codificata, in base alla quale per il soddisfacimento dell'interesse generale della collettività a che venga svolta attività sportiva per il potenziamento fisico della popolazione, come tale tutelato dallo Stato, è consentita l'assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale relativo alla integrità fisica. Tale esimente presuppone in ogni caso che non sia travalicato il dovere di lealtà sportiva nel
senso che devono essere rispettate le norme che disciplinano ciascuna attività e che l'atleta non deve esporre l'avversario ad un rischio superiore a quello consentito in quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio (Sez. 4, Sentenza n. 2765 del 12/11/1999, Rv. 217643; Sez. 5, Sentenza n. 9627 del 30/04/1992, Rv. 192262).
5. In questa prospettiva di accettazione della regola sportiva e del pericolo eventuale che essa comporta per l'incolumità di colui che pratica uno sport, che implichi un contatto con altri atleti, il rischio consentito è stato identificato con quell'area di non punibilità delineata dalle regole della disciplina, che ritaglia "la nozione di illecito sportivo, con riferimento all'inosservanza sia dei canoni di
condotta generalmente previsti per ciascuna disciplina (ad esempio, determinate tipologie comportamentali anche estranee alla competizione vera e propria; tesseramenti fraudolenti od iniziative volte ad alterare il regolare svolgimento di
una gara ed altro ancora), sia delle specifiche regole di gioco che devono essere osservate nell'agone sportivo e che compongono la parte tecnica del regolamento di ciascuna federazione. L'area del rischio consentito deve ritenersi coincidente con quella delineata dal rispetto di quest'ultime regole, che individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal
regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport. Le regole tecniche mirano,
infatti, a disciplinare l'uso della violenza, intesa come energia fisica positiva, tale in quanto spiegata - in forme corrette - al perseguimento di un determinato obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza dell'avversario, (quale può essere
l'impossessamento di un pallone conteso o la realizzazione di un goal nel calcio, calcetto, hockey, pallanuoto, pallamano; di un canestro nel basket o di una meta nel rugby et similia; o ancora il superamento dell'avversario nel pugilato, nella
lotta ed altro ancora). Posto che l'uso della forza fisica, nel senso anzidetto, può essere causa di pregiudizi per l'avversario che cerchi di opporre regolare azione di contrasto, il rispetto delle regole segna il discrimine tra lecito ed illecito in chiave
sportiva" (così Sez. 5, Sentenza n. 19473 del 20/01/2005, Rv. 231534, in motivazione). Con questa precisazione si è fissato un primo approdo, ovverosia che nello sport che preveda il contatto fra atleti ciò che il regolamento consente, ancorché produca un danno, è lecito sportivo, perché non esorbitando dalle regole previste dalla disciplina deve ritenersi accettato da coloro che la praticano, nel momento stesso in cui ne accettano le norme tecniche, siano esse relative all'attività agonistica o dilettantisca o amatoriale, a seconda dei livelli in cui si svolge l'agone e delle disposizioni eventualmente diverse che lo regolano. Si pensi, per esempio
al colpo del pugile -il cui scopo è atterrare l'avversario- che, pur regolarmente inferto, produca un livido. In questo caso, chi subisce la lesione non può dolersene, perché praticando la boxe ha accettato di ricevere, pur nei limiti previsti, anche
colpi che ne compromettono l'incolumità. E ciò, perché la regola sportiva di per sé implica la possibilità della lesione, che viene accettata nei limiti della regola stessa. Diverso è il problema quando, invece, la lesione all'incolumità personale sia
cagionata dalla violazione della regola sportiva, perché è proprio in relazione al superamento del limite regolamentare che la giurisprudenza si interroga sul confine fra l'illecito sportivo e l'illecito penale. Nel cercare di tracciare questo confine, i giudici di legittimità hanno ritenuto che illecito sportivo, cui conseguano lesioni, ed illecito penale non coincidano
necessariamente, essendoci un'area in cui l'elusione della regola sportiva, che rappresenti lo sviluppo fisiologico dell'azione finalisticamente rivolta al conseguimento del risultato, e non sia connotata da volontarietà, non integra
l'illecito penale. Al contrario, quando la violazione della regola sia voluta "e sia deliberatamente piegata al conseguimento del risultato, con cieca indifferenza per l'altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di
pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell'area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della colpa. Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l'occasione dell'azione volta a cagionare lesioni,
sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica (per ragioni estranee alla gara o per pregressi risentimenti personali o per ragioni di rivalsa, ritorsione o reazione a falli precedentemente subiti, in una logica dunque punitiva o da contrappasso). Quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di un'ordinaria situazione di gioco, il fatto avrà natura colposa, in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all'avversario, ma al conseguimento - in forma illecita, e dunque antisportiva - di un determinato obiettivo agonistico, salva, ovviamente, la verifica in concreto che lo svolgimento di un'azione di gioco, non sia stato altro che mero pretesto per arrecare, volontariamente, danni all'avversario. (ancora (Sez. 5, Sentenza n. 19473 del
20/01/2005, Rv. 231534, in motivazione; in senso del tutto analogo: Sez. 5, Sentenza n. 17923 del 13/02/2009, Rv. 243611; Sez. 4, Sentenza n. 9559 del 26/11/2015, dep. 08/03/2016, Rv. 266561). Proprio su questa base si sono ritenute al di fuori del perimetro del rischio
consentito azioni quali il calcio la gomitata o il pugno sferrato a gioco fermo (Sez. 5, Sentenza n. 8910 del 02/06/2000, dep. 08/08/2000; Sez. 5, Sentenza n. 45210 del 21/09/2005, Rv. 232723; Sez. 5, Sentenza n. 42114 del 04/07/2011, 5Corte di Cassazione - copia non ufficialeRv. 25170) in quanto dolose aggressioni fisiche svincolate dalla peculiare dinamica sportiva, posto che nella disciplina calcistica l'azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero da movimenti, anche senza palla,
funzionali alle più efficaci strategie tattiche (blocco degli avversari, marcamenti, tagli in area ecc.) e non può ricomprendere indiscriminatamente tutto ciò che avvenga in campo, sia pure nei tempi di durata regolamentare dell'incontro.
Mentre è stata reputata sorretta dalla causa di giustificazione la condotta del giocatore che, in un incontro di calcio di particolare rilevanza agonistica, durante un'azione volta a interrompere il contropiede della squadra avversaria, aveva colpito uno degli avversari con un calcio, causandogli una frattura, pur intendendo intervenire sulla palla, ma mal calcolando la tennpistica dell'azione (Sez. 4,
Sentenza n. 9559 del 26/11/2015, dep. 08/03/2016, Rv. 266561), in quanto non solo la lesione, ma neppure l'infrazione della regola -il fallo- era stata voluta.
6. A ben vedere, nondimeno, l'impostazione che fonda il limite fra illecito sportivo ed illecito penale sull'operatività della scriminante del rischio consentito, non appare pienamente soddisfacente, perché essa implica che l'attività sportiva costituisca una causa di giustificazione, laddove, invece essa è attività lecita e regolata dalla normazione di ciascun specifico settore disciplinare, anche con
riferimento al livello agonistico più o meno elevato. La partecipazione all'attività comporta da parte dell'atleta l'accettazione della regola sportiva e del rischio ad essa connesso, ma non implica di per sé l'accettazione della lesione dell'integrità
fisica che scaturisca dall'azione dolosa altrui, ancorché interna al gioco, o quella conseguente all'azione dell'antagonista che sia colposamente cagionata.
7. Responsabilità sportiva e responsabilità penale, infatti, si muovono su piani parzialmente diversi e solo parzialmente intersecanti, essendo la prima disciplinata dai rispettivi regolamenti, che definiscono i limiti della correttezza del gioco, la seconda potendo sussistere solo quando l'evento lesivo derivi da una condotta dolosa o colposa dell'agente.
8. Si tratta -al di là dell'ipotesi dolosa caratterizzata dall'elemento volitivo della lesione, al di fuori o nel corso del gioco- di comprendere se e quale tipo di rapporto vi sia tra la regola sportiva e quella cautelare volta ad evitare il prodursi di eventi dannosi, posto che l'azione sportiva, anche non contraria al regolamento, può risultare ex ante tale da comportare la lesione fisica altrui, laddove una violazione della disposizione sportiva può, invece, in concreto porsi al di fuori della prevedibilità dell'evento lesivo.
9. Occorre, allora, rifarsi alle regole ordinarie sulla colpevolezza colposa, individuando la regola cautelare che presidia l'attività, concentrandosi sulla doverosità della condotta richiesta, in cui rientra la condotta prudente, perita, non negligente, così come quella osservante delle regole del gioco, specificamente volte ad evitare il pericolo di lesioni. E ciò perché c'è un'area consentita di azione in cui l'evento lesivo è prevedibile, ma la condotta volta ad evitarlo non è richiesta perché implica la paralisi dello sport di contatto, che invece resta attività lecita.
10. La non piena sovrapponibilità fra illecito sportivo ed illecito penale si coglie proprio nell'individuazione della regola destinata nel primo caso a disciplinare l'azione, nel secondo ad evitare l'evento. Si tratta di norme che non sempre corrispondono, tanto che -come nell'ipotesi di specie, in cui la norma sul taclke è diversamente coniugata a seconda delle modalità di gioco- una certa azione è consentita dal regolamento sportivo della disciplina quando l'attività sia agonistica, e non quando si eserciti a livello dilettantistico o amatoriale, ancorché l'evento dannoso che può determinarsi con l'azione sia il medesimo e sia in entrambi i casi prevedibile e l'astenersi dall'azione possa in entrambi i casi evitarlo. Nell'accettazione del regolamento, in questo senso, sta la liceità sportiva, che tuttavia non copre integralmente la liceità penale, che impone, al di là della regola il limite della prudenza, della perizia, della diligenza, cioè della regolazione dell'azione finalizzata a non nuocere. Ma in questo sta anche, per altro verso, l'obbligo di astensione dall'azione non consentita dal regolamento sportivo, rilevante ai fini penali, perché per aversi responsabilità è necessario che l'azione possa prevedibilmente, con valutazione ex ante, causare il danno, laddove l'assenza di prevedibilità non comporta la colpevolezza se la norma disciplinare violata ha un fine diverso da quello di evitare l'evento dannoso.
11. Emerge, dunque, proprio da questa differenza la diversità fra l'illecito sportivo, il cui rilievo spetta all'arbitro, e quello penale, di competenza del giudice il quale deve rifarsi ai criteri ordinari della colpa, fissati dall'art. 43 cod. pen., individuando non solo la regola cautelare preesistente, che impone la condotta doverosa di astensione nei limiti proprii della disciplina lecita, ma anche i limiti
della sua applicazione in termini di prevedibilità dell'evento, essendo al contempo imposto al giudice di verificare se l'azione, che rientri nel lecito sportivo, in quanto non violante alcuna regola, sia posta in essere nei limiti della prudenza, in modo
da non cagionare, per l'eccesso nella gestione del gesto atletico o per l'eccessività ed inutilità al fine sportivo del contrasto opposto, un danno prevedibile all'altrui integrità fisica.
12. Se si accettano queste premesse diventa chiaro che non è l'entità del danno cagionato a discriminare l'azione illecita, ma la travalicazione della norma cautelare prestabilita che renda prevedibile l'evento, sia perché disapplicata, sia perché inutilmente trascesa, al fine del raggiungimento del risultato.
13. Nel caso di specie, al contrario, il primo giudice con un ragionamento ripreso dalla Corte territoriale fa derivare ex post la violazione della regola cautelare proprio dall'entità della lesione cagionata da ****** all'avversario, affermando che la scriminante del rischio consentito -condizione che conviene abbandonare- non copre il gesto atletico della scivolata (tackle), in quanto vietato nel football a cinque, senza valutare se, in concreto, in quelle specifiche condizioni di gioco fosse prevedibile che quell'atto, ancorché non consentito dal regolamento, cagionasse all'avversario una lesione di qualunque tipo, indipendentemente dalla sua gravità.
14. La sentenza deve essere, pertanto, annullata ai fini penali, perché il reato è estinto per prescrizione, nonché agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui va demandata altresì la regolamentazione delle spese fra le parti per questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione. Annulla, agli effetti civili, la medesima sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui demanda anche la
regolamentazione delle spese per questo giudizio di legittimità.
Cosi deciso il 21 ottobre 2021
Il Presidente
Francesco Maria Ciampi
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